Editoriale di Arianna Acciarino – Direttore editoriale di mangiobenevivobene.it
Quante sono le frottole che ci fanno bere ogni giorno? Quali sono i consigli validi e quali invece le leggende metropolitane?
Esistono davvero gli alimenti miracolosi che nel giro di una settimana ci depurano, ci fanno dimagrire e risolvono qualche seria patologia o la prevengono? E quelli molto calorici o raffinati, fanno poi così male?
Per depurarci ci bastano 3 nostri alleati, che ci accompagnano ogni giorno ovunque andiamo: i nostri reni e il nostro fegato.
Acqua e limone ogni mattina, bibitoni di aloe, giornate di soli liquidi o digiuno non hanno alcun potere “magico” e non basteranno a mantenerci in salute se per il resto del tempo restiamo seduti sul divano a guardare la tv… magari con una sigaretta tra le dita.
Insomma, i cibi miracolosi non esistono e non c’è bacca di gogji che possa prevenire i capelli bianchi se nel nostro dna c’è scritto che ci verranno a 25 anni.
Ma mangiarle non fa male e, anzi, in un regime dietetico vario e rispettoso dei dettami della Dieta Mediterranea, magari ci aiuteranno a stare meglio.
Michele Gulizia, cardiologo e Presidente Nazionale ANMCO, asserisce che “il cibo è un sistema complesso: mentre da un lato è oggetto di un’attenzione mediatica quasi morbosa, scarsa è l’informazione sulle caratteristiche nutrizionali di ciò che mettiamo in tavola.
Emblematico è il caso dei grassi, troppo spesso demonizzati e il cui corretto utilizzo è stato riabilitato dopo 40 anni di terrorismo informativo. Ma la disinformazione sugli alimenti interessa anche i carboidrati, le proteine, e le diete riduttive che escludano intere fasce di nutrienti o singoli elementi anche in assenza di indicazioni mediche che giustifichino questi comportamenti”.
Proprio su questi messaggi scorretti si fonda l’opinione pubblica della moderna società occidentale che ha oggi ritmi frenetici e alte aspettative estetiche, connubio micidiale che spesso spinge le persone ad affidarsi alle “soluzioni semplici e veloci” promosse in tv e sul web, o a evitare drasticamente certe tipologie di alimenti, nella convinzione che sarà quella la risposta a tutte le loro necessità.
In un post precedente ci interrogavamo sullo zucchero, chiedendoci se fosse davvero l’origine di tutti i problemi di obesità e diabete delle società occidentali, visto che a marzo di un anno fa l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) aveva abbassato le soglie di consumo giornaliero a meno del 10% (augurandosi che si scendesse sotto il 5%).
Un report del Journal of Clinical Epidemiology, troppo spesso ignorato, rilevava però che le
le raccomandazioni forti sono spesso basate su studi con bias di affidabilità bassa o molto bassa”. Il report ha esaminato tutte le linee guida dell’Oms pubblicate tra il 2007 e il 2012 e ha rilevato che su 456 raccomandazioni, 289 (oltre il 50%) classificate come ‘forti’ erano basate su studi di qualità bassa o molto bassa.
Il report puntava i riflettori sull’inadeguatezza e la mancanza di trasparenza nella metodologia usata per redigere le raccomandazioni, portando come esempio proprio la recommendation sullo zucchero: “stilata prendendo in esame quattro studi osservazionali degli anni ’60, svolti in Giappone, che indagavano l’insorgenza di carie dentali”. L’affidabilità di questa ricerca è infatti classificata “very low”, e lo studio dal quale consegue la recomendation relativa al livello del 10% di zuccheri, ha un grado di attendibilità “moderate“, moderato… insomma, poco più che trascurabile, in assenza di altre evidenze scientifiche!
Intervistato proprio in occasione di un convegno sul tema dello zucchero, il professor Agostino Macrì, professore di Ispezione degli Alimenti al Campus Biomedico di Roma ed ex direttore del Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Sicurezza Alimentare dell’Istituto Superiore di Sanità, oggi curatore del blog dell’Unione Nazionale Consumatori, ha ribadito alla nostra intervistatrice che il vero problema di salute a livello mondiale non è lo zucchero di per sé, ma il suo rapporto in relazione a cosa e quanto ingeriamo complessivamente ogni giorno: “mangiamo circa 200 kg di cibo l’anno, che sono oggettivamente troppi per le necessità del nostro fisico. La questione dell’eccesso di zucchero si può quindi facilmente risolvere semplicemente mangiando meno e mangiando meglio”.
Accanirsi su un singolo elemento nutrizionale significa avere una visione ristretta e compartimentata della realtà, che non porta a nessun vero cambiamento e quindi a nessuna vera e definitiva soluzione.
Lo stesso discorso vale oggi per l’olio di palma, demone alimentare di questo 2016, considerato ormai quasi un veleno ma che in effetti risulterebbe essere molto meno dannoso delle margarine.
Un articolo di pochi giorni fa scritto da Alice Pace, giornalista scientifica, e pubblicato da Wired Italia, ha presentato con chiarezza ai lettori i risultati dell’ultimo rapporto dell’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare): “Contaminanti in oli vegetali e alimenti”.
La premessa dell’articolo di Pace è che “trattandosi di un documento indirizzato agli addetti ai lavori della Commissione e, in questa fase, non ai consumatori, la sua interpretazione non è affatto semplice e, in ragione della presunta cancerogenicità di una delle sostanze, ha già generato le prime paure. Così come anche i primi fraintendimenti, in primis il collegamento automatico tra olio di palma e insorgenza di tumori“.
Proprio per questo è stato chiamato a interpretare il testo il ricercatore Marco Silano dell’Istituto Superiore di Sanità, esperto di salute e nutrizione, che ha spiegato che il documento dell’Efsa si riferisce a dati sperimentali su animali da laboratorio che evidenziano il potenziale effetto genotossico e cancerogeno del glicidolo, il composto nel quale, durante la digestione, i glicidil esteri potrebbero trasformarsi. Al momento dunque mancano dati epidemiologici sulla correlazione tra il consumo di oli vegetali e sviluppo di tumori nell’uomo.
Mentre quindi i ricercatori proseguono nelle loro indagini non serve farsi prendere dal panico o bandire tutti gli oli vegetali, dato che, ci ricorda Silano, “l’insorgenza di un tumore è la conseguenza di più fattori in causa: genetici, ambientali e tra questi anche alimentari”.
L’attenzione all’alimentazione dovrebbe quindi spostarsi dalla quantità totale di sostanze nutritive alla composizione complessiva e alla qualità della dieta e della vita complessiva del singolo individuo.
Come ha saggiamente detto il professor Dennis Bier, direttore dell’American Journal of Clinical Nutrition: “l’approccio che studia i singoli nutrienti è necessario per aiutare a definire risposte biochimiche a quell’elemento, ma non è in grado di cogliere la risposta ad una alimentazione complessa come quella umana”.
Affidiamoci quindi a medici esperti e a ricercatori e ascoltiamo chi fa informazione in modo professionale e competente, tenendoci alla larga da sensazionalismi infondati e allarmismi “acchiappa click”.
La salute è una cosa seria e fragile e non ci sono formule magiche per preservarla: dieta mediterranea, varietà e completezza nutrizionale dei pasti, attività fisica, sole, aria aperta e gestione dello stress sono impegni che durano una vita… ma la rendono una bella e lunga vita.