Questo articolo è uscito su Atlantic con il titolo Eating toward immortality. L’autore, Michelle Allison, è una dietologa di Toronto.
Traduzione in italiano di Internazionale
Quando si sa una cosa non è necessario crederci. Non servono atti di fede se possiamo sapere o dimostrare qualcosa attraverso la logica o le prove empiriche. Certi aspetti della nutrizione e della fisiologia dell’alimentazione sono noti e conoscibili: per esempio il fatto che gli esseri umani hanno bisogno di certe sostanze nutritive o che il nostro corpo converte il cibo in energia e quindi in carne (e di nuovo in energia in caso di necessità).
Ci sono però domande più ampie per le quali non ci sono risposte definitive. Qual è la dieta migliore per tutti? E per me? La nutrizione è una scienza giovane che si basa su una serie di discipline complesse (chimica, biochimica, fisiologia, microbiologia, psicologia) e, anche se siamo lontani dall’averla capita completamente, dobbiamo comunque mangiare per sopravvivere. E senza risposte facili o certe, ogni volta che mangiamo qualcosa è come se facessimo un atto di fede. Mangiare è il primo rito magico, un gesto che trasmette l’energia vitale da un oggetto all’altro, spiegava l’antropologo culturale Ernest Becker (1924-1974) nel suo libro Escape from evil, pubblicato postumo nel 1975.
Tutti gli animali devono attingere da altre forme di vita per sopravvivere, dal latte materno alle piante fino ai cadaveri di altri animali. L’atto dell’incorporazione, del mettere nel nostro corpo qualcosa che è stato vivo, è necessario per l’esistenza di tutti gli animali. Ma è anche un pensiero che disturba e disgusta, perché crea un collegamento diretto tra l’alimentazione e la morte. L’autoconsapevolezza tipica della nostra specie ci spinge a fare i conti con la mortalità in dai primi anni di vita. Nel suo libro Il rifiuto della morte (San Paolo Edizioni 1982) Becker ipotizza che la paura della morte – e il bisogno di sopprimerla – influenzi gran parte del comportamento umano. Questa idea si è sviluppata nel campo della psicologia sociale fino a formare le basi della teoria della gestione del terrore.
L’uomo antico, dopo essersi riempito la pancia, ha capito che la vita non era una questione di mera sopravvivenza e ha cominciato a guardare in faccia la mortalità. Ha fabbricato oggetti per trovare distrazione, conforto e significato. Ha creato culture in cui la morte non era più la fine di tutto, ma un rito di passaggio. Ha costruito case, scritto canzoni e aggiunto spezie ai cibi, cucinandoli in tanti modi diversi. L’essere umano si affida a un sistema di significati, simboli, riti ed etichette. Il cibo e l’alimentazione fanno parte di questo sistema. L’atto di ingerire ha un tale significato culturale che la maggior parte dei nostri simili ne rimuove le radici, che affondano nella semplice e brutale necessità di sopravvivere. Anche per chi vive in povertà estrema e ha una preoccupazione immediata per la sopravvivenza, il significato culturale del cibo resta fondamentale. Ricchi o poveri, mangiamo perché è festa, mangiamo perché siamo in lutto, mangiamo perché è ora di pranzo, mangiamo per creare un legame con gli altri, mangiamo per divertimento e per piacere. Non è un caso che la funzione di sussistenza del cibo rimanga sepolta da tutto questo: chi di noi pensa a rinviare la morte quando si tuffa in una tazza di cereali? Dimenticarsi della morte è il nodo fondamentale della cultura del cibo.
A proposito del cibo, Becker dice che l’uomo “ha visto subito oltre il mero nutrimento fisico”, e che il desiderio di vivere di più – non solo di rimandare la morte nell’immediato, ma di eliminare completamente l’idea della mortalità – è cresciuto ino a diventare un’ossessione: trasformare sé stessi in oggetti perfetti capaci di accedere a una sorta di immortalità. La cultura della dieta e le sue varianti sono strutture culturali che abbiamo creato per provare a superare la nostra animalità. Attraverso le diete, l’uomo non solo mangia per restare in vita, ma entra a far parte di un edificio culturale più grande e più duraturo rispetto al suo corpo. È una sorta di rito dell’immortalità, e i riti vanno espletati socialmente, mai in segreto. L’essere umano è probabilmente l’onnivoro più promiscuo che sia mai esistito. Ci nutriamo di animali, insetti, piante, esseri acquatici e a volte anche di qualcosa che non è cibo: polvere, argilla e gesso. Non siamo come i panda, che si accontentano sobriamente di tonnellate di bambù. Cerchiamo la varietà e la novità, e allo stesso tempo abbiamo una paura innata del cibo. Di qui il famoso paradosso dell’onnivoro, che – con buona pace di Michael Pollan, autore di Il dilemma dell’onnivoro (Adelphi 2013) – non è la semplice confusione su cosa scegliere in un mercato alimentare dove c’è di tutto. Il paradosso dell’onnivoro è stato originariamente definito dallo studioso di psicologia Paul Frozin come l’ansia che nasce dal desiderio di provare nuovi cibi (neofilia) insieme alla paura ereditaria di cibi sconosciuti (neofobia) che potrebbero rivelarsi tossici.
Tutti gli onnivori avvertono questa spinta contrapposta, ma nessuno in modo intenso come la specie umana. se non fosse per il rischio minimo di morire che si annida dietro ogni scelta alimentare e dietro ogni ideologia dietologica, decidere cosa mangiare non sarebbe considerato un dilemma. lo chiameremmo “il divertimento dell’onnivoro al supermercato” e su Facebook la gente non posterebbe in continuazione meme sulla necessità di bere due litri d’acqua al giorno o sulle proprietà magiche dell’aceto di mele e dell’olio di cocco. saremmo tutti un po’ più rilassati parlando di cibo. Non esiste un manuale unico e definitivo su come bisognerebbe mangiare, anche se schiere di nutrizionisti, dietologi, chef e personaggi famosi hanno più volte provato a scriverlo. Ognuno di noi si ritrova a mediare tra il desiderio del cibo e la paura dell’ignoto quando siamo ancora troppo giovani per leggere, fare il calcolo delle calorie e afferrare i concetti astratti della nutrizione.
Quasi tutti i bambini attraversano prima o poi una fase in cui fanno storie per mangiare. sembra che sia un meccanismo evolutivo di sopravvivenza che c’impedisce di ingerire sostanze tossiche quando abbiamo già acquisito sufficiente manualità per metterci le cose in bocca ma non siamo ancora abbastanza esperti per riconoscere la differenza tra i cibi sicuri e quelli pericolosi. siamo tutti stati bambini e abbiamo tutti provato a ficcarci in bocca qualunque cosa, anche se poi sputavamo il passato di piselli. la nostra natura di onnivori ci dà una libertà entusiasmante e al tempo stesso terrificante. In quanto creature sociali, cerchiamo sicurezza in questa libertà all’interno della nostra cultura, e questa ricerca di sicurezza si traduce in una sorta di conformismo. Preferiamo affidarci a dei leader a cui abbiamo conferito l’autorità di guidarci verso la salvezza. Gli eroi della cultura contemporanea della nutrizione sono dei guru del benessere che dicono di essersi curati dall’obesità, dalle malattie e dall’insignificanza attraverso la purezza inattaccabile del succo di verdure spremuto a freddo. Anche gli eroi dell’antichità si guadagnavano il loro status affrontando e sconfiggendo la morte: Ercole, per esempio, diventa immortale dopo aver catturato o ucciso una serie di bestie pericolose, tra cui il cane a tre teste posto a guardia dell’Ade.
I moderni guru del benessere sono mangiatori puliti e affascinanti che documentano il loro trionfo sulla triste e sudicia animalità con foto sapientemente studiate di frullati verdi in eleganti barattoli e corpi ritoccati al computer. È impossibile ritrovare l’eroe in un documento di ricerca serio sulla nutrizione, basato su un campione anonimo, pieno di dati e scritto nel linguaggio impenetrabile degli statistici con pagine e pagine di avvertenze sui limiti dell’analisi. L’immagine di qualcuno con cui identificarci a livello personale, che ci sorride da uno schermo con due foto “prima” e “dopo”, è tutta un’altra cosa. Qui il mito di creazione e redenzione – come l’eroe che prima si è perso poi si è ritrovato – è fortissimo. C’è una duplice motivazione alla base del comportamento umano, dice Becker: la spinta all’eroismo e il desiderio di espiazione.
Nel profondo, ognuno di noi può avvertire una sorta di senso di colpa per il fatto stesso di avere un corpo, di occupare spazio e di avere appetiti che divorano le cose che lo circondano. Vogliamo in tutti i modi espiare questa colpa, e la cultura ci fornisce non solo i mezzi per raggiungere il conforto materiale, ma anche l’opportunità di sacriicare parte di quel conforto e arrivare alla redenzione. Per i guru del benessere non basta accumulare la ricchezza della salute, della bellezza e dello status: devono negarsi lo zucchero, la farina e la carne. Devono fare penitenza. Solo quelli che hanno status e risorse in abbondanza possono concedersi i gesti di rinuncia più sconvolgenti. Hanno tante cose! La cucina di acciaio e granito! La collezione Le Creuset! Che luce divina! Possono permettersi di mangiare il dolce se finisce il pane, ma non lo fanno perché hanno eliminato lo zucchero. Mangiano solo ramoscelli e muschio. C’è un modo più nobile di trionfare sulla polvere, l’animalità e la morte? Il bello è che possiamo farlo anche noi. A patto di avere tempo e soldi da spendere per spremere il muschio e bollire i rami finché non sono abbastanza morbidi per essere mangiati.
È così che dal paradosso dell’onnivoro nasce la cultura della dieta: sopraffatti dalle scelte, dalla vaga minaccia della morte che si nasconde dietro ogni scelta sbagliata, cerchiamo regole fuori da noi stessi ed eroi che ci portino verso la salvezza. Consapevolmente, felicemente, rinunciamo alla nostra libertà in cambio della costrizione di una dieta che ci proibisce i nostri cibi preferiti, che ci spinge ad affidarci a ciò che non conosciamo, che non ci piace o che ci è inaccessibile, solo per essere sollevati dalla scelta e dalla responsabilità che ne consegue. Il punto è che se siamo liberi di scegliere, poi possiamo essere incolpati di tutto ciò che ci succede: i chili in più, le malattie, l’invecchiamento. In parole povere, della nostra condizione umana, soggetta ai capricci della sorte e all’inevitabile mortalità. L’essere umano è l’unico animale conscio della sua mortalità, e ognuno di noi vuole che la sua morte arrivi come una sorpresa anziché come un epilogo patetico e inevitabile. Vogliamo che la gente dica di noi: “Aveva fatto tutto quello che doveva fare”.
Se non possiamo sfuggire alla morte, forse possiamo trovare il modo di essere dichiarati innocenti. Ma la cultura della dieta cambia continuamente. Quelli che oggi sono i cibi simbolo domani saranno considerati superati o contaminati, e all’interno della cultura della dieta esistono ideologie contrastanti: quello che per qualcuno è sano e pulito per qualcun altro è sporco e decadente. Per la maggior parte dei vegani i legumi e i farinacei sono alimenti vitali e pieni di salute, mentre rappresentano l’influenza corruttrice dell’agricoltura sullo stato di natura per chi preferisce una dieta paleolitica molto proteica e a basso contenuto di carboidrati. La stessa scienza della nutrizione consiste in una serie di confutazioni e correzioni progressive. Non c’è una via sicura verso la purezza e l’innocenza attraverso il cibo.
L’unico filo conduttore tra le diverse ideologie dietologiche è l’idea che seguendole si possa sfuggire alla condizione umana e diventare entità più pure e meno animali. È per questo che parlando di dieta gli animi si scaldano subito. Non stiamo semplicemente discutendo: confrontiamo la nostra scommessa su come evitare la morte con quella di qualcun altro. Facciamo un buco nella loro scialuppa di salvataggio. Ma se quella di qualcun altro si rivelasse l’unica vera dieta, vorrebbe dire che la nostra non lo è. Se loro hanno ragione, noi abbiamo torto. Ecco perché la dieta sembra quasi una religione. Le persone sposano una fede dietologica nella speranza di essere salvati. Se sono abbastanza bravi, abbastanza puri nel mangiare, possono tenere a distanza la malattia e la mortalità.
La ricerca della vita eterna richiede sempre un atto di fede. Mangiare senza restrizioni, d’altro canto, vuol dire rischiare di essere impuri e imboccare un sentiero personale incerto. Vuol dire ammettere la mortalità, le limitazioni e le contraddizioni tipiche di una creatura biologica, accettando allo stesso tempo le libertà e i piaceri del cibo e assumendosene la responsabilità. Mangiare in modo agnostico significa sparare nel buio, e accettare che ci sono molte cose che ignoriamo. Una cosa però la sappiamo: non esiste la dieta definitiva. Probabilmente ci sono tanti modi giusti di mangiare quante sono le persone: nessuno di noi può vivere in eterno, e tutti dobbiamo dare al cibo e alla nostra vita un significato personale e temporaneo.