La moda del momento è la dicitura “senza olio di palma” nei prodotti alimentari: ma questo grasso vegetale è davvero pericoloso per la salute? E il suo bando dalle nostre tavole risolverebbe davvero i danni ambientali provocati dalle piantagioni? Ecco un’analisi a 360 gradi, senza pregiudizi o allarmismi ingiustificati, per fugare ogni dubbio sul più discusso ingrediente degli ultimi anni.
L’olio di palma è l’ingrediente alimentare più chiacchierato degli ultimi anni. Tra preoccupazioni per la salute, eccesso di allarmismi, un pizzico di concorrenza sleale e qualche mistificazione, distinguere le informazioni corrette dalle bufale nel “mare magnum” del web è ogni giorno più difficile. Abbiamo quindi raccolto i risultati delle ultime ricerche e le informazioni fornite dalle fonti più attendibili per fare chiarezza e informare al meglio i consumatori.
L’olio di palma è un grasso derivato dalla spremitura dei frutti dell’omonima pianta. Nel sud del mondo si usa da secoli, mentre in Occidente il suo utilizzo si è diffuso negli ultimi cinquant’anni. Recentemente è diventato una sorta di pietra dello scandalo e la dicitura “senza olio di palma” campeggia ormai in numerosi prodotti alimentari. Un modo ingannevole di certificare la presunta salubrità di un prodotto, dato che non prende in considerazione i suoi ingredienti ma solo l’assenza di un grasso vegetale.
Ma perché l’olio di palma è sotto accusa? I motivi sono tre: il primo è che il suo contenuto di grassi saturi sarebbe nocivo per la salute; il secondo è che la sua coltura è spesso causa di deforestazioni dannose all’ambiente e agli animali; il terzo – l’accusa più recente – è che svilupperebbe dei contaminanti potenzialmente cancerogeni.
Analizziamo queste accuse con obiettività, cominciando proprio con quest’ultima.
L’OLIO DI PALMA È CANCEROGENO?
Il 10 febbraio scorso i ricercatori del Dipartimento di Farmacia dell’Università Federico II di Napoli hanno fugato ogni dubbio: l’olio di palma non è di per sé nocivo, ma è “vulnerabile” a determinati processi di preparazione. In particolare, se si superano i 200 gradi durante la sua lavorazione esso sprigiona “contaminanti di processo” dannosi per la salute. Tuttavia, tali “contaminanti di processo” che si formano durante la lavorazione degli alimenti – tossici e potenzialmente cancerogeni – non vengono sviluppati solo dall’olio di palma, ma da qualunque grasso vegetale. Per la sua composizione, è vero che l’olio di palma rischia di svilupparne in misura maggiore rispetto ad altri oli vegetali, ma sempre solo nel caso che venga trattato in modo inappropriato dai produttori.
È quindi importante che l’industria alimentare utilizzi procedimenti che prevedano la lavorazione degli oli vegetali alle giuste temperature e con i dovuti controlli tecnologici, come diverse aziende stanno già facendo, soprattutto in Italia. Perché queste lavorazioni a basso impatto non sono la norma? La risposta è ovvia: il costo è ben più elevato rispetto alle lavorazioni “ad alta temperatura”.
Durante un convegno, svoltosi a Roma il 14 febbraio ed organizzato da parlamentari del Movimento 5 Stelle, Alberto Mantovani, dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità ed esperto dell’EFSA (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare), ha illustrato con chiarezza i dati prodotti dall’EFSA sull’olio di palma e come l’ISS li ha analizzati, spiegando al grande pubblico come funziona questo tipo di analisi.
Mantovani ha confermato che i cosiddetti “contaminanti di processo” non sono un problema del solo olio di palma, ma di tutti gli oli vegetali e di moltissimi altri alimenti. Ad esempio, poco si parla dell’acrilamide che si forma nei prodotti ricchi di aspargina come le patate: quando friggiamo o arrostiamo le patatine a temperature eccessive rischiamo che si produca questo contaminante che non esiste nell’alimento al suo stato naturale. Il problema quindi non è l’alimento o l’ingrediente in sé, ma la modalità di preparazione. Per Mantovani è quindi fondamentale il ruolo delle imprese alimentari nel controllare ingredienti e processi di produzione e serve un’interlocuzione tra Istituzioni Pubbliche (che definiscono regole e limiti) e le aziende, che devono innovare i processi HACCP, cioè quel protocollo che definisce le procedure volte a prevenire le possibili contaminazioni degli alimenti.
Il prossimo passo sarà infatti quello di stabilire le dosi tollerabili di questi contaminanti, non soltanto nell’olio di palma ma in tutti gli oli vegetali (ad esempio l’olio di colza si è rivelato molto pericoloso per i bambini da 0 a 10 anni, perché produce un elemento tossico che si va a depositare nel cuore dei bambini).
La risposta al primo interrogativo è dunque la seguente: l’olio di palma e gli altri oli vegetali non sono cancerogeni, ma la loro raffinazione, se fatta a temperature troppo alte, sviluppa contaminanti potenzialmente pericolosi.
L’OLIO DI PALMA È “TROPPO GRASSO”?
Il dottor Mantovani ha fatto chiarezza anche sulla composizione dell’olio di palma, che ha effettivamente una percentuale in acidi grassi saturi maggiore rispetto a quella di altri oli vegetali (50% palma contro 20% girasole).
Il problema non è però mai un solo elemento nutritivo, ma l’insieme del regime alimentare del singolo e della sua comunità: al momento in Occidente si consumano troppi acidi grassi saturi, provenienti da diverse fonti di apporto, compresi gli alimenti di origine animale quali burro e formaggi, ma anche la carne stessa.
Quindi la strategia corretta è quella di lavorare per ridurre i grassi saturi nelle diete, senza demonizzare alcun alimento. Come ha spiegato la dottoressa Elisabetta Lupotto, direttore del CREA-Alimenti e Nutrizione a “Il Fatto alimentare”, l’olio di palma rappresenta una piccola frazione del quantitativo di grassi saturi che gli italiani assumono ogni giorno.
Il consumo medio di grassi saturi della popolazione italiana adulta è pari a 29,7 grammi per i maschi e 24,4 grammi per le femmine, corrispondenti rispettivamente all’11,2% e 11,3% dell’energia giornaliera complessiva. Sono percentuali che fortunatamente non si discostano troppo dall’obiettivo di prevenzione, che è il 10%, ma è bene mantenere alta la guardia.
QUANTO OLIO DI PALMA CONSUMIAMO EFFETTIVAMENTE OGNI GIORNO?
Nella somma complessiva degli acidi grassi saturi quotidianamente assunti dagli italiani solo 2,8 e 2,4 grammi vengono da prodotti che potrebbero contenere olio di palma, corrispondenti all’1% dell’energia complessiva giornaliera.
Stando ai Food Balance Sheets della FAO del 2011, ovvero i dati del bilancio alimentare stilati nazione per nazione, la disponibilità al consumo pro capite di olio di palma in Italia era pari a 3,15 grammi al giorno. Ma la “disponibilità al consumo” è un dato di misurazione che indica l’effettiva presenza sul mercato di un determinato prodotto e in genere è superiore al consumo reale, perché non tiene conto di scarti di produzione e sprechi: ricordiamo che 1/3 del cibo disponibile finisce nella spazzatura.
Negli ultimi cinque anni molte aziende – a seguito del battage allarmistico di demonizzazione dell’olio di palma – hanno sostituito questo ingrediente con altri oli vegetali. Tuttavia, ciò non vuol dire che l’apporto giornaliero complessivo pro capite di acidi grassi saturi sia calato, ma solo che se ne è diversificata l’origine rispetto al 2011.
Per la dottoressa Lupotto bisogna quindi concentrarsi sulla dieta nella sua globalità e non sul singolo ingrediente, che da solo ha un effetto minimo sull’apporto complessivo di acidi grassi saturi.
QUANTO OLIO DI PALMA IMPORTIAMO IN ITALIA, E COME LO UTILIZZIAMO?
La produzione mondiale di olio di palma è passata da 15,2 milioni di tonnellate nel 1995 a 60 milioni di tonnellate nel 2016. L’olio viene prodotto prevalentemente in Indonesia (50%) e Malesia (35%). Tra i produttori emergenti troviamo il Sud America, l’America centrale (2,8 milioni di tonnellate), la Thailandia (1,6 milioni di tonnellate) e l’Africa occidentale (2,2 milioni di tonnellate). I principali consumatori di olio di palma sono India (7,6 milioni di tonnellate annue), Indonesia (7,0 mln) e Cina (6,1 mln).
Stando ai dati dell’European Palm Oil Alliance, nell’Unione Europea si importano grossomodo le stesse quantità di olio di palma utilizzate dalla sola Cina, ovvero il 13% della produzione globale. L’80% dell’olio di palma importato in Europa è utilizzato nelle lavorazioni industriali, soprattutto come Biodiesel e poi nella cosmetica – da evidenziare in termini di coerenza: mai nessun “boicottaggio” è stato promosso per l’uso di Palma in questi due settori industriali – e del totale import in Europa solo il 20% – quindi solo il 2,6% del totale mondiale – finisce nella produzione alimentare di largo consumo.
Le circa 77.000 tonnellate di olio di palma importate in Italia per uso alimentare (Food Balance Sheet FAO, 2011), ipoteticamente distribuite uniformemente sull’intera popolazione italiana, corrispondono ad un consumo pro capite di 3,15 grammi al giorno.
L’iniziativa di alcune industrie alimentari di sostituire il Palma con altri ingredienti appare quindi più dettata da logiche di immagine e di marketing che non da una reale esigenza relativa alla salute o all’ambiente.
Passiamo quindi all’ultimo argomento di frequente dibattito su questo ingrediente.
L’OLIO DI PALMA PUÒ ESSERE “ECO-SOSTENIBILE”?
Come avevamo già illustrato in un precedente articolo pubblicato durante l’ultimo Salone del Gusto di Slow Food, l’olio di palma ha una resa all’ettaro tra le 4 e le 10 volte superiore a quella degli altri oli vegetali. Altri oli simili, come ad esempio quello di girasole – proposto a più riprese come “sostituto ideale del Palma”, specie in Francia, che guarda caso è uno dei principali produttori mondiali di girasole – per rispondere alla stessa richiesta di mercato saremmo costretti a disboscare territori assai più vasti di quelli di cui necessita la palma da olio.
Amnesty International ha denunciato che in Indonesia molte delle aziende produttrici di olio di palma non hanno rispettato né la biodiversità del territorio né i diritti fondamentali delle popolazioni che lo abitano, riducendo spesso i lavoratori in condizioni di vera schiavitù. Il problema non è tuttavia confinato al solo olio di palma, ma a tutte le monocolture intensive che negli ultimi 50 anni hanno devastato l’Amazzonia e altri importanti territori del sud e dell’est del mondo.
Laura Renzi (Amnesty International), Flaviano Bianchini (SOURCE International) e Fabio Ciconte (Terra! Onlus, portavoce della campagna “Filiera sporca”) durante il convegno del 14 febbraio hanno illustrato i loro drammatici report. Allo stesso convegno, però, tutti i relatori si sono dimostrati consapevoli del fatto che bandire l’olio di palma non solo è impossibile, ma soprattutto non apporterebbe reali vantaggi alle condizioni di vita di quelle popolazioni o alla salvaguardia di quei territori: se non ci fossero le palme da olio ci sarebbe qualche altra coltivazione intensiva, in alcuni casi ancor più impattante sull’ecosistema.
L’obiettivo da porsi e quindi da chiedere a gran voce a tutti i governi è la stesura e l’applicazione di norme internazionali vincolanti, che obblighino tanto le industrie quanto i singoli Stati a vigilare sul rispetto dei diritti umani e delle tutele ambientali. Ben venga quindi, in questo senso la recentissima risoluzione del Parlamento Europeo di martedì 4 aprile, che chiede all’Unione di applicare norme più stringenti proprio per tracciare la provenienza dell’olio di palma, e consentire – di fatto – l’importazione nel vecchio continente di prodotto esclusivamente certificato come sostenibile, oltre all’eliminazione dell’utilizzo nella produzione di biodisel” entro il 2020.
Fortunatamente, la crescente attenzione per le tematiche ambientali e sociali ha già spinto alcune aziende a investire esclusivamente in fornitori di olio di palma sostenibile. Questa è la strada migliore da seguire, in tutti i settori: per produrre soia si causano identiche devastazioni in Brasile, ad esempio. E gli incendi boschivi in Italia vengono appiccati per le stesse ragioni: ovvero disboscare per aumentare le superfici coltivabili.
CONCLUSIONI
Come confermato dalle organizzazioni ambientaliste, non è di per se abolendo o boicottando l’olio di palma che si contribuisce alla soluzione di problemi gravissimi come le deforestazioni, la distruzione della fauna locale o lo sfruttamento del lavoro, che in alcune aree del pianeta caratterizzano tutte le colture intensive: le soluzioni attualmente disponibili potrebbero addirittura peggiorare lo scenario, senza considerare che il boicottaggio del Palma poterebbe alla fame decine di migliaia di famiglie di contadini ai limiti della soglia di povertà, per le quali le piantagioni di Palma sono l’unica risorsa per vivere onestamente, e la cui “conversione” ad altre colture non sarebbe certamente immediata.
L’unica strada che pare realisticamente percorribile è indurre le aziende a fornirsi solo da fonti sostenibili certificate, rendendo sempre più stringenti i criteri di eco-sostenibilità, per esempio controllando tutti i passaggi della filiera, dall’avvio della coltura alla raffinazione, fino alla sua destinazione finale.
Dal punto di vista nutrizionale, l’olio di palma rappresenta una percentuale estremamente esigua degli acidi grassi saturi ingeriti mediamente dagli italiani. E a renderlo pericoloso e no per la salute, non è tanto la quantità ma il tpo di lavorazione cui è sottoposto, al pari di ogni altro grasso vegetale. Il crescente ricorso alla dicitura “senza olio di palma” nei prodotti di largo consumo appare quindi più dettato da ragioni di marketing che di “convinzione etica”.
Limitare in generale l’assunzione di grassi saturi, variare l’alimentazione sulla base dei criteri propri della dieta mediterranea, e nel contempo non demonizzare mai in modo assoluto un singolo ingrediente, sono sempre e comunque le soluzioni migliori per soddisfare il palato preservando la salute.