Un altro argomento molto dibattuto, in questi tempi, è l’utilizzo dell’olio di palma nell’industria dolciaria. Innumerevoli prodotti industriali e non, utilizzano questo fondamentale ingrediente per assicurare la giusta consistenza e una lunga conservazione… ma per molti critici, la produzione di olio di palma ha un impatto devastante sugli ecosistemi dei paesi produttori. Riteniamo che – come per ogni prodotto, cibo, bevanda etc. – il problema non stia tanto nel quesito “utilizzarlo si o no”, ma come, quanto, in che modalità viene prodotto… ecco a tal proposito un interessantissimo articolo di Wired Italia,dal titolo “L’olio di palma può essere sostenibile?”, che a nostro avviso risponde a molti dubbi su questo diffusissimo prodotto.
L’olio di palma può essere sostenibile?
Da un lato si elaborano piani per una produzione a basso impatto, dall’altro c’è chi lo ritiene comunque un prodotto troppo caro per il Pianeta. Ecco i fronti del dibattito su olio di palma e ambiente
Di Alice Pace – per Wired Italia (http://www.wired.it/scienza/ecologia/2015/11/10/olio-di-palma-sostenibile/?utm_source=wired&utm_medium=NL&utm_campaign=daily)
Mentre lavi i panni, ti sciacqui le mani col sapone o ti spazzoli i denti, c’è quasi sempre. Così come quando infili una fetta nel tostapane, quando apri un barattolo di gelato davanti al televisore o quando sgranocchi i cereali tuffati nel latte. L’olio di palma, il più usato di tutti i grassi vegetali, è in moltissimi dei prodotti che usiamo tutti i giorni, circa la metà di quelli confezionati del supermercato.
Anche davanti alla domanda se un olio di palma sostenibile esista, o sia possibile, le risposte, di fatto, divergono. C’è chi reputa che sia un prodotto a prescindere troppo caro per il Pianeta, e che nessun tentativo per rendere la sua produzione meglio tollerata sia percorribile.
Ma anche chi elabora norme e linee guida per provarci, ed è convinto che possano funzionare.
In mezzo a questa situazione a dir poco complessa (data la quantità di forze in gioco), è davvero difficile costruirsi un’opinione sul tema. Nel tentativo di fare chiarezza, ecco alcuni fronti della discussione.
Il problema delle piantagioni
Presentando una produttività nettamente superiore, a parità di terreno e risorse, rispetto agli altri oli vegetali, l’olio di palma, o meglio, le piantagioni di palma da olio, sono protagoniste negli ultimi anni di un’espansione rapidissima. Solo negli ultimi 10 anninel Sud-est asiatico, sede dei principali paesi produttori, la sua coltivazione è triplicata.
Da un estremo, in modalità selvaggia, radendo al suolo indiscriminatamente, ettaro dopo ettaro, quel patrimonio di biodiversità che è la foresta pluviale. Anche nei suoi angoli più remoti e incontaminati, le cosiddette foreste vergini, o quelli ricchi di specie protette. In alcuni casi, secondo le testimonianze, espropriando persino le terre agli abitanti locali, o applicando nelle coltivazioni un regime di vero e proprio sfruttamento. O ancora, incendiando interi territori, pur di fare piazza pulita e impiegarli per le piantagioni.
È una vera coperta di smog quella che, da oltre due mesi, sovrasta i territori dell’Indonesia, della Malesia e Singapore, in seguito airoghi (visibili anche sulla mappa del Global Forest Watch, che monitora il fenomeno attraverso le osservazioni satellitari) innescati da numerosi coltivatori indonesiani. Decine di migliaia di persone colpite da problemi alle vie respiratorie, riporta Time, scuole chiuse per minaccia alla salute pubblica, aeroporti bloccati per scarsa visibilità. Ma anche e soprattutto un tasso di emissione di gas serra superiore a quella di un territorio industrializzato come quello degli Usa.
“Si tratta di un crimine contro l’umanità di dimensioni spropositate”, ha dichiarato solo qualche giorno fa lo stesso portavoce della Meteorology, Climatology and Geophysics Agency indonesiana al Guardian. E non solo contro l’umanità, perché di mezzo c’è anche la sopravvivenza di oranghi, leopardi, tigri, rinoceronti e di quelle svariate migliaia di altre specie viventi che popolano quello che, è risaputo, è uno degli habitat tra i più diversificati in assoluto.
Il tentativo di ridurre l’impatto
All’altro estremo si parla invece di normative, così come di sistemi di controllo e certificazione, atti a incanalare la produzione verso modalità più responsabili nei confronti dell’ambiente, attente a non violare i diritti dei lavoratori e, più in generale, delle comunità locali. Con ruoli, standard e protagonisti di volta in volta diversi.
Un tentativo è quello della Malesia, il cui governo ha formalizzato il proprio impegno a lasciare intatto almeno il 50% della superficie delle proprie foreste, e che vieta, per esempio, l’impiego del fuoco per la creazione di nuovi spazi da dedicare alle piantagioni.
Esistono poi organi trasversali, il più noto dei quali l’Rspo (o Roundtable on Sustainable Palm Oil), un’organizzazione agricola (qui l’elenco dei membri aderenti) che invece certifica l’olio prodotto secondo criteri etici e ambientali prestabiliti con l’obiettivo di minimizzare l’impatto negativo della produzione. Evitando di puntare alle aree col maggior tasso di biodiversità, così come le zone più significative dal punto di vista culturale, contenendo l’uso di pesticidi, evitando gli incendi e condannando lo sfruttamento dei lavoratori. Sul fronte operano inoltre molteOng che, per esempio, si occupano della sensibilizzazione e di creare consapevolezza pubblica sul problema.
Il dibattito sulla sostenibilità
Il fatto che alcune istituzioni, l’Rspo e persino il Wwf (che ne fa parte) identifichino il problema delle piantagioni e della produzione con l’assenza di un’appropriata regolamentazione e di controllo, e credano nella possibilità di un olio di palma davvero sostenibile, non mette però tutti d’accordo.
Una delle perplessità più frequenti è che, a oggi, la frazione di olio di palma certificato secondo i criteri dell’Rspo, a livello globale, non vada ancora oltre il 20%, e che quindi la stragrande maggioranza del mercato sfugga ancora alle richieste di tentata-sostenibilità. Altri ancora criticano il fatto che le certificazioni di responsabilità dell’Rspo siano rilasciate dalle stesse aziende, e che potrebbero dimostrarsi anche un mero strumento dimarketing in mano alle multinazionali. Perlomeno finché non si mette in moto un ente indipendente per la valutazione. Le voci più critiche sostengono addirittura che anzi, il solo fatto che esistano le certificazioni potrebbe dimostrarsi ancora più nocivo per l’ambiente, poiché incoraggerebbe il consumatore a fare un uso ancor più sconsiderato dell’olio di palma, fino ad aumentarne la richiesta.
Quel che appare sempre più chiaro è che si tratta di un tema delicatissimo e molto più complesso di quel che abbiamo visto finora. Dove l’unica strada percorribile, secondo molti, resta quella della trasparenza. In primis da parte delle aziende, che potrebbero iniziare col rendere noto il proprio percorso verso un prodotto più etico. Per esempio, rendendo tracciabile la propria materia prima. Ma anche l’aggregazione verso strategie di lavoro collaborative, dove sviluppare soluzioni applicabili su larga scala e non, come finora avviene, in maniera puntiforme. Anche se, e forse questo è l’unico punto che mette tutti d’accordo, la situazione non cambierà da un giorno all’altro. Qualsiasi direzione si decida di intraprendere.