Ogni essere umano, uomo, donna, bambino in età prescolare, persona anziana, ha il diritto fondamentale di accedere all’educazione fisica e allo sport, dimensioni indispensabili per lo sviluppo della personalità, delle attitudini, della volontà e della padronanza di sé a livello intellettuale e morale.
La continuità dell’attività fisica e della pratica dello sport devono essere assicurate per tutta la vita, per mezzo di un’educazione permanente, globale e democratizzata, per favorire la piena integrazione di ciascuno all’interno della società.
Questo è quanto si evince nella “Carta Internazionale per l’Educazione Fisica e lo Sport” (21 Novembre 1978).
È risaputo che i benefici dello sport siano moltissimi e innegabili. Chi fa sport vive di più perché protegge meglio la propria salute, vede migliorate piccole patologie come cefalee, disturbi gastrici, stitichezza, previene il declino muscolare e osseo. Non va dimenticata l’azione calmante dell’attività sportiva.
Fare sport permette di staccare dai problemi quotidiani e di ricaricarsi, durante l’attività fisica vengono secrete le endorfine, sostanze che stimolano l’organismo, predisponendolo a reagire positivamente a situazioni di stress.
Lo sport permette di divenire non solo più forti fisicamente ma anche mentalmente, donando una maggiore determinazione a cui conseguono maggiore autostima, fiducia in sé stessi e ottimismo.
Lo sport ha, dunque, un alto valore educativo quando pone al centro l’Uomo e le sue potenzialità.
Il mondo che ci circonda, però, può indurci a pensare che il valore dello sport si misuri nel prevalere nei confronti degli altri.
E’ un concetto travisato di sport, tanto per citare Alex Zanardi “ognuno di noi ha un proprio potenziale, possiede un mazzo di carte che il destino ci ha dato in dote e che attraverso l’allenamento e la preparazione migliora ma quando la gara inizia, quando si gioca, dobbiamo essere consci del fatto che l’obiettivo è fare il nostro meglio, non ottenere il miglior risultato assoluto”.
L’avversario è il proprio limite e la vittoria risiede nel tentativo senza riserve, convinti di aver dato tutto quanto ci fosse da spendere.
Esiste anche un mondo diverso dove, paradossalmente, c’è un eccesso di comprensione e ammirazione per chi tenta, un atteggiamento accondiscendente per chi si mette in gioco a dispetto dei suoi guai e invece poca riconoscenza pubblica per il cosiddetto “gesto atletico”, per il risultato che il tentativo genera: è lo sport dei diversamente abili.
Lo stereotipo comune porta a pensare ai disabili come persone malate, ferme, immobili finché non si assiste alle loro performance che mostrano tutt’altro: passione, energia impiegata nelle gare, determinazione nello sfruttare al meglio le proprie capacità residue, la loro vitalità, la muscolatura degli atleti.
Il paradosso è che proprio chi “osa” vivere lo sport a dispetto del proprio handicap, lo fa perché è perfettamente conscio del valore del tentativo e vorrebbe ricevere di tanto in tanto una gratificazione per i risultati ottenuti in seguito ad allenamenti faticosi.
Di fronte a questi atleti c’è da togliersi il cappello non per l’esempio che danno ma perché dal loro punto di partenza hanno percorso una distanza immensa ottenendo risultati di altissimo livello.
Attraverso l’educazione psicomotoria e la pratica sportiva, il disabile ha modo di sperimentare una nuova integrazione Mente/Corpo, ha la possibilità di migliorare sul piano cognitivo attraverso la conoscenza del proprio corpo, dello spazio, del tempo e della velocità; sul piano fisico aumentando la forza muscolare, la capacità di equilibrio, la coordinazione motoria, imparando a superare la fatica (che rappresenta uno dei primi ostacoli per la riabilitazione); sul piano sportivo acquisendo conoscenze tecniche delle varie discipline sportive, incentivando la comunicazione interpersonale e la collaborazione (attraverso il gioco di squadra), rispettando le norme condivise; sul piano psicologico producendo uno stato di soddisfazione generale che conduce al contenimento degli stati emotivi, incrementando la capacità di autocontrollo; sul piano socio-educativo aumentando la propria autonomia, spronando all’impegno durante gli allenamenti e al rispetto dell’avversario, insegnando il coraggio, promuovendo la lealtà; favorendo la socializzazione, l’aggregazione, integrazione, superando così paure, pregiudizi e isolamento.
Ma perché ciò accada, occorre fare in modo che lo sport sia in funzione del soggetto e non viceversa, in special modo se la persona che lo pratica è un disabile.
L’inserimento di persone diversamente abili in un contesto sportivo risale ad un periodo relativamente recente: durante la Seconda Guerra Mondiale, nei pressi di Londra, fu aperto un centro riabilitativo per giovani di ambo i sessi appartenenti alle forze armate britanniche, portatori di lesioni midollari per cause belliche.
Sir Ludwig Guttmann, neurochirurgo e direttore del centro, fu il primo a capire l’importanza dello sport nella riabilitazione prima e nella vita sociale poi, per le persone con una disabilità, capì che non si tratta di abilità negate ma di “diverse abilità”.
Egli introdusse lo sport competitivo come parte integrante della riabilitazione; dimostrò come esercizio sportivo e competizione riducessero in maniera significativa il tasso di mortalità (in Italia bisogna attendere il 1957 prima di veder realizzato un centro di riabilitazione che pratica sport-terapia: Villa Marina di Ostia, nei pressi di Roma).
Nel 1948 organizzò a Stoke Mandeville i primi giochi per atleti con disabilità, ai quali parteciparono atleti para e tetraplegici; 4 anni dopo agli atleti inglesi si unirono i norvegesi. Era nato, ufficiosamente, il Movimento Paralimpico. Anche il cinema dell’epoca fu colpito da ciò e fu prodotto il film “Men”, il cui protagonista, Marlon Brando interpretava un paraplegico, reduce di guerra, che faceva riabilitazione in ospedale, giocando a basket in carrozzina.
Fu solo nel 1960, a Roma, che si suggellò l’unione tra sport olimpico e paraolimpico; furono, infatti, introdotti i Giochi Paraolimpici, contenenti giochi paralleli e assolutamente complementari alle Olimpiadi per normodotati a cui poterono partecipare i disabili.
Partecipare ai Giochi è il massimo per un atleta, sia che la parola successiva cominci per “o” sia che cominci con il suffisso “para”. La parola Paraolimpico inizialmente combinava le parole paraplegic e olympic, poi, con l’inclusione di altri tipi di disabilità e la sempre più stretta unione con il Movimento Olimpico, è venuta a rappresentare la fusione tra parallel e olympic, a mostrare quanto i due movimenti siano la faccia della stessa medaglia.
Gli atleti disabili vivono lo sport non come fisioterapia bensì nella pienezza delle caratteristiche ludico-agonistiche dell’attività sportiva.
Essi vivono le competizioni per realizzarsi, per vincere i propri limiti e i risultati sono spesso notevoli perché il desiderio di riscatto è molto forte.
A differenza delle persone con disabilità dell’apprendimento, il disabile fisico compete soprattutto per vincere; alcuni di essi riescono a raggiungere livelli molto elevati fino a partecipare alle Paraolimpiadi ma anche coloro che raggiungono risultati più modesti si allenano e gareggiano al meglio delle proprie possibilità.
La sintesi di tutto ciò è che il vero vincitore in una competizione è colui che vive fino in fondo la gara sportiva, imparando anche ad accettare i limiti del proprio corpo, limiti presenti in ciascuno di noi, seppur in misura diversa, disabili e normodotati.
“Che io possa vincere, ma se non riuscissi, che io possa tentare con tutte le mie forze”
(Eunice Kennedy Shriver, fondatrice delle Special Olympics)
A.B.