Arriva finalmente l’obbligo di indicare chiaramente in etichetta la provenienza dei pomodori utilizzati per passate, pelati, concentrati e tutti i prodotti trasformati da essi derivanti.
Lo avevamo già comunicato qualche settimana fa sulla nostra pagina Facebook, tramite il post della nostra editorialista Francesca Antonucci sulla sua pagina Food Holmes, ma era doveroso un approfondimento.
Una battaglia del Mipaaf per la trasparenza e la tutela dei consumatori
Ufficialmente, l’obbligo è scattato il 27 agosto scorso, quando è entrato in vigore il decreto interministeriale promosso dal Mipaaf (Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali) e firmato dai ministri Maurizio Martina e Carlo Calenda.
Questo decreto impone di fatto l’indicazione d’origine obbligatoria su prodotti quali salse, conserve, concentrati e sughi pronti prodotti in Italia, che siano composti almeno per il 50% da derivati del pomodoro.
Il provvedimento introduce la sperimentazione per due anni del sistema di etichettatura, nel solco della norma già in vigore per i prodotti lattiero-caseari, per la pasta e per il riso.
L’obiettivo è quello di aumentare la trasparenza delle etichette alimentari, permettendo così ai consumatori di fare acquisti più consapevoli.
Sostiene al contempo il lavoro di quelle aziende che scelgono solo pomodori italiani, magari più cari di altri prodotti sul mercato, ma certamente di più alta e verificata qualità e salubrità.
Come cambiano le etichettature
Il provvedimento prevede una fase di adeguamento per le aziende e concede loro del tempo per lo smaltimento completo delle etichette e delle confezioni già prodotte.
Nel giro di poco tempo, comunque, tutte le confezioni di derivati del pomodoro prodotti in Italia dovranno indicare chiaramente in etichetta:
- nome del Paese nel quale il pomodoro viene coltivato
- nome del Paese in cui il pomodoro è stato trasformato
Se queste fasi avvengono in più Paesi, possono essere utilizzate, a seconda della provenienza, le diciture: Paesi UE, Paesi NON UE, Paesi UE E NON UE.
Solo se tutte le operazioni avvengono nel nostro Paese si può utilizzare la dicitura “Origine del pomodoro: Italia”.
L’Italia produce tanto ma importa troppo
Coldiretti ricorda che l’Italia è la principale produttrice di pomodori nell’Unione Europea, eppure, nel 2018, l’importazione di “oro rosso” nel nostro Paese ha registrato un aumento del 15% rispetto al 2017, con l’ingresso in 6 mesi di ben 86 milioni di chili di pomodori provenienti – nell’ordine – da Stati Uniti, Spagna e Cina.
Questo vuol dire che molte aziende di trasformazione preferiscono acquistare all’estero piuttosto che dalle aziende produttrici nostrane.
Ovviamente, si tratta di una scelta dettata dal mero interesse economico.
L’obbligo di inserire in etichetta l’origine dei pomodori usati nei loro prodotti, dovrebbe dunque spronare queste aziende a fare scelte diverse, che favoriscano i prodotti sicuri, magari Made in Italy, o quantomeno prodotti sotto le tutele e restrizioni imposte dalla Comunità Europea.
Come ben documenta Giulia Crepaldi in questo articolo de Il Fatto Alimentare, le differenze di prezzo nei supermercati sono molto nette: “la passata di marchi come Cirio o Mutti, è venduta in media a 2,30 €/kg, mentre le bottiglie con il marchio dell’insegna oscillano da 0,74 €/kg di Carrefour Discount, a 1,28 €/kg di Esselunga”, questo dipende chiaramente da quanto l’azienda ha pagato il pomodoro fresco.
Prezzi fuori mercato indicano anomalie produttive: dalla scarsa qualità del prodotto allo sfruttamento dei lavoratori agricoli, quando vediamo un prodotto venduto ad un prezzo incredibilmente basso dobbiamo sempre chiederci cosa c’è dietro: la trasparenza delle etichette alimentari è fondamentale anche per questo.
Quando l’etichetta nasconde, le illegalità proliferano
Nel 2016 sempre Coldiretti aveva pubblicato una Black List dei prodotti ortofrutticoli più contaminati rilevati sul suolo UE, facendo riferimento ai risultati delle analisi condotte dall’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) nel Rapporto 2015 sui Residui dei Fitosanitari in Europa.
La Cina risultava essere la nazione dalla quale provenivano buona parte dei prodotti maggiormente contaminati, e non ci si stupiva, dato che è suo il primato nel numero di notifiche da parte dell’Unione Europea per prodotti alimentari irregolari perché contaminati dalla presenza di micotossine, additivi e coloranti al di fuori dalle norme di legge.
Sul caso, Mangio Bene Vivo Bene intervistò il dottor Rolando Mafredini, Responsabile Qualità per la Coldiretti, che sottolineava come, benché si trattasse di prodotti entrati illegalmente nella UE perché non conformi ai nostri standard di sicurezza, per i consumatori era impossibile sapere se un’azienda utilizzava o no quei prodotti, a causa dell’ “opacità” delle etichette alimentari.
“La concorrenza – affermava Manfredini – è sleale, perché noi abbiamo delle procedure in Europa, e in particolare in Italia, che sono molto rigide per salvaguardare la sicurezza alimentare, tant’è che l’Italia è al vertice in Europa, con un residuo che è lo 0,5% su moltissimi alimenti. Nella black list si parla di residui a due cifre”.
La scarsa trasparenza genera inoltre un sistema di frodi e contraffazioni alimentari difficile da rintracciare.
Lo stesso vale per lo sfruttamento dei lavoratori del settore agricolo, piagato dal fenomeno del caporalato e del lavoro in nero.
Condizioni di lavoro inumane, turni infiniti, paghe miserrime e nessun diritto e tutela sono la realtà quotidiana di troppi lavoratori, una realtà assolutamente inaccettabile in un Paese democratico come l’Italia.
Il nostro augurio è che la trasparenza delle etichette sproni i consumatori ad essere più attenti e consapevoli nelle loro scelte, così da premiare le aziende più virtuose sotto tutti i punti di vista.