“Viviamo in una società grassofobica” – ha dichiarato il nutrizionista Andrea Poli, direttore della Nutrition Foundation of Italy, durante il Festival del Giornalismo Alimentare a Torino. Ma è davvero necessario temere tutti i tipi di grassi come fossero il “male assoluto”? Non essendo nutrizionisti né ricercatori universitari, abbiamo interpellato degli esperti per farci un’idea a riguardo.
I grassi saturi sono l’origine di tutte le malattie?
Per molti anni i grassi saturi sono stati additati come elementi nutritivi decisamente dannosi, in quanto capaci di incrementare le percentuali di colesterolo nel sangue e quindi di innescare una serie di processi metabolici all’interno dell’organismo che per oltre cinquant’anni sono stati considerati alla base di malattie quali obesità, diabete e patologie cardio-circolatorie.
Come abbiamo illustrato in un precedente articolo negli ultimi anni si è affermata la consapevolezza che il colesterolo non è qualcosa di cui avere paura tout-court: uno studio su un campione molto ampio di popolazione, condotto a Tel Aviv tra il 2009 e il 2013, ha rilevato che abbassare ai livelli minimi la presenza di colesterolo nel sangue non garantisce in alcun modo maggiore prevenzione dai problemi cardiocircolatori.
Alle stesse conclusioni è giunto il British Medical Journal (alla luce di una raccolta di dati realizzata dalla Minnesota Coronary Experiment tra il 1968 e il 1973, ma prima d’ora mai pubblicata): la sostituzione dei grassi saturi di origine animale con oli vegetali ricchi di acido linoleico abbassa effettivamente i livelli di colesterolo nel sangue ma non c’è prova che questo riduca davvero il rischio di morte per malattie cardiache.
Gli USA e la guerra ai grassi saturi a suon di prodotti “light”: no al formaggio caprino… si alla Coca Zero?
Questo allarme generalizzato contro i grassi saturi e il colesterolo partì dagli Stati Uniti, dove nel 1977 una Commissione del Senato guidata da George McGovern pubblicò delle linee guida alimentari imperative e allarmanti, che invitavano caldamente gli americani a mangiare meno carne rossa, uova e latticini, sostituendone l’apporto calorico con un incremento di frutta, verdure, ma – soprattutto – carboidrati: con quasi un milione di morti per malattie cardiache a metà anni ’80, per l’America era necessario trovare una soluzione drastica che invertisse la rotta.
A quasi quarant’anni di distanza, risulta evidente il fallimento dell’operazione: a fronte di intenti iniziali di indiscutibile buona fede, la strada percorsa è stata tutt’altra.
La guerra a colpi di prodotti light, scremati e low fat contro i grassi alimentari, in particolare quelli saturi – presenti soprattutto nei prodotti di origine animale (latte intero, latticini, formaggi e carni rosse o grasse) – non ha infatti affatto scongiurato l’esplodere di quella che negli Usa è ormai considerata una vera e propria epidemia: l’obesità, che si porta dietro un incremento esponenziale dei casi di diabete di tipo 2 e di malattie cardiovascolari.
Il 23 giugno 2014 sul Times appare allora un coraggioso articolo a firma del giornalista Bryan Walsh che tenta di riabilitare agli occhi dell’opinione pubblica mondiale i grassi saturi e il loro ruolo all’interno di un corretto regime alimentare.
Walsh dichiara fermamente “We cut the fat, but […] Americans are sicker than ever” (“abbiamo tagliato i grassi… ma gli americani sono più malati che mai”): i casi di diabete di tipo 2 sono aumentati del 166% tra il 1980 e il 2012; quasi un americano su dieci ha questa malattia e ben 86 milioni di cittadini possono essere considerati in uno stato di pre-diabete.
Anche l’incidenza di malattie cardiovascolari non si è affatto ridotta, malgrado la guerra al fumo e l’utilizzo massivo di statine per tenere sotto controllo i livelli di colesterolo nel sangue.
Neppure promuovere l’attività fisica è bastato a invertire la rotta: il risultato dell’applicazione di queste straegie è che oggi gli Stato Uniti sono il Paese più obeso del mondo.
Perché non ha funzionato?
Perché i prodotti immaginati “a rischio” sono semplicemente stati sostituiti da qualcos’altro, in particolare da carboidrati raffinati e zuccheri, che però saziano meno e meno a lungo, inducendo così – paradossalmente – a mangiare di più. Si tratta di elementi nutritivi che, se consumati in eccesso, hanno un ruolo attivo nei processi metabolici che conducono all’aumento esponenziale del peso corporeo e all’insorgenza dei diabete.
“In nutrizione non esiste il concetto di ‘eliminazione e basta’: se si toglie un nutriente, bisogna sostituirlo” spiega Enzo Spisni, docente di fisiologia della nutrizione all’Università di Bologna, in un articolo su Il Fatto Alimentare.
Nel suo articolo Walsh tira le somme: dal 1971 al 2000 nei piatti degli americani la percentuale di calorie derivata dai grassi saturi diminuiva drasticamente, mentre quella derivata dai carboidrati aumentava del 15%, e nello stesso periodo aumentava anche la quota calorica giornaliera pro capite.
Possiamo allora smettere di demonizzare i cibi “grassi” in quanto tali?
Walsh riporta una meta-analisi del 2010 che prende in esame una raccolta di diversi studi sul rapporto tra grassi saturi e salute del cuore: da questo lavoro risulta che non ci sono evidenze scientifiche significative che i grassi saturi siano associati a un aumento del rischio di disturbi cardiovascolari.
Ovvio, gli eccessi vanno sempre e comunque evitati, mangiare ogni giorno un salame di Felino intero darà sicuramente problemi… ma le linee guida del Ministero della Salute italiana indicano per i grassi saturi dei valori ottimali che vanno dal 7 al 10% delle calorie totali della dieta quotidiana, e quindi non è affatto necessario eliminarli tout court dalla nostra dieta!
“La scienza della nutrizione è una disciplina molto complessa, in cui rientrano tantissimi aspetti ed è difficile trovare qualcosa che faccia bene o male in modo assoluto”, commenta Spisni.
Uniche regole d’oro: moderazione e varietà
Come abbiamo spesso ribadito, la demonizzazione del singolo elemento nutritivo – zuccheri, grassi o carboidrati che siano – non soltanto non porta a nessun risultato positivo in termini di salute, ma spesso induce comportamenti alimentari ancor più dannosi per l’individuo.
Spazio quindi a menu variegati, ricchi di verdure, con porzioni più piccole, senza “negarsi” nulla… e soprattutto tante passeggiate all’aria aperta!