“Nei prodotti industriali, sostituire il consumo l’olio di palma con altri tipi di oli vegetali sarebbe disastroso dal punto di vista ambientale, e potrebbe costituire anche un rischio dal punto di vista della salute alimentare”: si può riassumere in questo breve concetto il dibattito “controcorrente” avvenuto stamane a “FoodMood“, evento organizzato nell’ambito di “TerraMadre – Salone del Gusto” di Slow Food, a Torino
Un parterre di esperti si è riunito stamane al TalkMood dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche (UNISG), per rispondere alla crescente domanda di chiarezza sull’olio di palma. L’insieme delle relazioni ha dato una risposta che parrebbe tombale alla domanda che imperversa da tempo nel dibattito pubblico, in Italia e non solo: è bene sostituire l’olio di palma nelle produzioni di tipo industriale?
La produzione industriale e l’ambiente
Dal punto di vista ambientale, è la “RSPO – Round Table on Soustainable Palm Oil”, organismo internazionale fondato dal WWF nel 2004 a dare la risposta più chiara: se un domani l’olio di palma fosse sostituito in toto da altri oli vegetali, il disastro ambientale e anche sociale sarebbe assicurato. Stefano Savi, di RSPO, ha portato in sala dati molto chiari circa la produzione di oli vegetali: se è vero che quello di palma è il più consumato al mondo, è anche vero che tutti gli altri oli – soia, girasole, cocco – vedono da circa dieci anni un incremento di produzione in virtù dell’aumento della richiesta da parte di India e Cina, dove sempre più ampie fasce di popolazione escono da una condizione di povertà assoluta e possono quindi accedere a regimi alimentari più vari, con ricorso a prodotti industriali e conservati.
L’olio di Palma ha però una resa all’ettaro da un minimo di 4 a un massimo di 10 volte superiore agli altri oli vegetali, il che significa che – per soddisfare il crescente ricorso agli oli vegetali, usati per garantire stabilità e consistenza in molti prodotti sia alimentari che cosmetici di tipo industriale – volendo utilizzare fonti diverse dalla palma, si dovrebbe disboscare da 4 a 10 volte di più; a ciò si aggiungerebbe probabilmente la crisi per alcuni milioni di individui – solo RSPO sostiene e certifica oltre 109.000 piccoli produttori e cooperative familiari, soprattutto nel sud-est asiatico, diversi dei quali presenti con stand anche a “Terra Madre” – che perderebbero di fatto la propria unica fonte di sostentamento economico, e che potrebbero essere forse avviati sulla strada della riconversione, ma certo non con immediatezza.
Il dato che più stimola la riflessione – anche grazie alle accurate infografiche diffuse online dal WWF – è che dal punto di vista ambientale e sociale la sfida non dovrebbe essere quella “ideologica” di certi gruppi che promuovono tout-court campagne per il boicottaggio ad oltranza del palma: l’attenzione dovrebbe invece spostarsi su dove e come viene prodotto l’olio in questione.
I grassi vegetali: quali le scelte giuste per la nostra salute?
Da anni si sente anche dire – seppur in modo fumoso e discordante, come confermano le continue polemiche tra favorevoli e contrari – che l’olio di palma fa male alla salute. Tra gli esperti presenti all’evento di Terra Madre, si è pronunciato Dario Bressanini, chimico e divulgatore scientifico, il quale – ricordando che non esiste la molecola di “olio di palma”, ma esistono molecole di grassi di diverso tipo, ognuna con le proprie caratteristiche – del palma è nota una più elevata quantità di grassi saturi, pari peraltro a quella di altre fonti come il cocco, il cacao o il burro – tali da renderlo più “solido” e quindi adatto all’uso industriale grazie agli effetti “addensanti” più marcati rispetto ad altri oli vegetali maggiormente liquidi.
Ma Ferdinando Giannone, nutrizionista presso l’Università di Bologna, ha spiegato come i grassi saturi non siano di per se “cattivi”, se consumati entro la soglia dei 25 grammi al giorno. Casomai, ad essere pericolosi, in virtù della loro proprietà infiammatoria, e quindi di un potenziale maggior rischio di cancerogenicità, sono gli acidi grassi Omega-6, di cui sono particolarmente ricchi – con concentrazioni da 2 a 3 volte superiori rispetto all’olio di palma – gli oli di mais girasole e soia: paradossalmente, proprio gli oli usati in industria alimentare in alternativa a quello di palma e spesso suggeriti da chi promuove campagne “palma-free”.
Anche i problemi di stoccaggio, che 20 anni fa esponevano il palma in giacenza nei capannoni al rischio di produzione eccessiva di digliceridi, paiono del tutto superati dalle nuove tecnologie di conservazione.
A chiudere il cerchio dal punto di vista della salute, la Prof. Maria Fiorenza Caboni, Docente di tecnologie alimentari all’Università di Bologna, che ha nuovamente messo in guardia sui rischi rappresentati dai cosiddetti grassi “trans”, e dal processo di “interesterificazione”, una parola difficile da pronunciare che significa, semplificando, la ridisposizione delle molecole di acidi grassi all’interno dei trigliceridi durante il processo chimico finalizzato a rendere gli oli “più solidi” e prevenire l’irrancidimento. Tale processo – utilizzato soprattutto dopo l’idrogenatura degli oli di soia e di girasole – causa una combinazione “casuale” delle catene di grassi all’interno della molecola, rendendo di fatto impossibile comprendere quali e come fra i grassi presenti nella molecola stessa saranno correttamente metabolizzati dal corpo umano, con il risultato che – per avere “performances” simili a quelle dell’olio di palma o del burro, entrambi “naturalmente” solidi a temperatura ambiente – gli altri oli di semi vengono “pasticciati” in modo davvero poco salubre per il consumatore.
A tal proposito tutti i relatori hanno concordato che per una concreta tutela del consumatore non sia utile solo indicare con chiarezza in etichetta la fonte dei grassi vegetali, quanto piuttosto il tipo di lavorazione cui essi sono stati sottoposti: è fuori discussione che un olio di palma non idrogenato sarà sicuramente assai più salubre che un olio di girasole idrogenato. La banalizzazione ideologica del “palma free” a tutti i costi, crolla quindi dinnanzi a queste indiscutibili riflessioni di carattere scientifico.
Allora che prodotti scegliere?
Potendo scegliere – e pagare – consigliamo sempre prodotti artigianali di qualità “made in Italy”, i quali potendo privilegiare il burro sono da considerare una “prima scelta”, al netto di considerazioni sul prezzo e soprattutto di carattere ambientale: infatti, se tutti i prodotti industriali di largo consumo fossero a base di burro, considerato il disastroso impatto ambientale derivante dall’allevamento intensivo delle mucche da latte – ad esempio metà dell’acqua consumata in tutto il pianeta è utilizzata per gli allevamenti animali! – avremo quasi sicuramente problemi ben più seri di quelli causati dalla coltivazione del Palma, il che non depone a favore della miopia di coloro i quali quali propagandano come ricetta risolutiva il “vietate il Palma, subito!”. Ma – per contro – se si deve scegliere tra vari prodotti industriali e/o a lunga conservazione tra gli scaffali del supermercato, non facciamoci trarre in inganno da campagne contro il palma semplicistiche e non basate su dati scientifici, promosse da qualche sedicente sito di informazione che finisce per suggerire soluzioni peggiori del problema…
Ci piace concludere con una battuta proprio del chimico Bressanini, in risposta alla domanda: “Con cosa conviene quindi sostituire l’olio di palma…?”. Sostituire un alimento con uno con le medesime caratteristiche ma solo di diversa provenienza, tendenzialmente non cambia assolutamente nulla: appurato che un alimento – in questo caso i grassi saturi, quali essi siano – può non far bene se consumato in eccesso, l’unica cosa sensata da fare è… ridurne il consumo!
Come non condividere questa indicazione di buonsenso? Buon appetito a tutti, senza eccessive apprensioni, e sempre usando la testa!